Sono nato a Macerata e dieci anni fa ho iniziato a scattare con una reflex digitale.
In questi anni ho viaggiato molto tra l’Italia ed all’estero. Quando non posso andare lontano, per questioni di tempo, lavoro e di soldi, prendo la macchina e vado in montagna, che rappresenta per me il posto più vicino lontano da tutto il rumore e la confusione della città. È proprio in montagna, e in particolare nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, che mi sono innamorato della fotografia paesaggistica, come mezzo per raccontare tutto quello che più mi sta a cuore: la natura, i paesaggi incontaminati, la vita rurale e culturale del mio territorio. Ho trovato nella fotografia un percorso di crescita personale, una maniera per esprimere ciò che a parole non sono e non ero capace di dire. Per questo negli anni, ho cercato di sperimentare vari generi: dal paesaggio, sono passato ai ritratti poi alla fotografia di scena in vari spettacoli teatrali, fino ad arrivare al reportage. Il reportage mi ha permesso di entrare dentro un mondo avendo la possibilità di esplorarlo e di capire qualcosa di più anche di me stesso. Ho documentato i pochi lavori che ancora resistono alla spirale capitalistica delle multinazionali, ho documentato gli effetti devastanti del terremoto che ha colpito il centro Italia nel 2016, per cercare di frenare la piana negativa dello spopolamento delle aree pedemontani degli Appennini. Sono stato nelle zone rurali, tra i pastori, dove i contadini ancora si svegliano al canto del gallo e nelle botteghe di artigiani dove il lavoro si accompagna sempre alla parola, al sapere che si tramanda da generazione in generazione, in quei luoghi in sostanza, dove l’aggregazione resiste, dove ci si scambiano ancora saluti e insulti, dove si parla della vita umile e dei grandi temi, dove ci si forma un sapere comune, che mantiene qualcosa di spontaneo e genuino di un tempo purtroppo oramai quasi del tutto perduto. Ultimamente ho visitato edifici che definisco “non luoghi”: ville abbandonate, fabbriche cadute in miseria, casolari in putrefazione, dove una volta vi era lavoro e vita. Gli edifici abbandonati, troppo vecchi o troppo lenti per i tempi sempre più rapidi che siamo costretti a vivere, e che sono lì a ricordarci l’abbandono come un’inesorabile e immediata caduta in miseria e quanto possa essere nociva la cementificazione massiccia e sconsiderata. Il reportage fotografico è quindi il genere che più mi appassiona, mi completa e mi appaga. Perché, in definitiva, per me fotografare vuol dire rubare alla morte per donare all’eterno, ma anche e soprattutto giustificare e dare senso alla mia vita, che senza una macchina fotografica non riesco a riconoscere ed accettare.
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